Set 21 2017

studio mascarini 21 09 2017

Published by at 11:39 am under costume,cronaca cremonese,spettacoli

STUDIO MASCARINI – MOSTRA DEL 28 SETTEMBRE ORE 17
Mario Biazzi 2017
a cura di Sebastiano Mascarini e Marco Tanzi
Marco Tanzi / A volte ritornano
Quest’anno abbiamo voluto esagerare, ci siamo lasciati prendere tutti un po’ la mano: due mostre in una, fatte con le stesse modalità e con l’allestimento di Michele sempre più protagonista, come un’altra mostra (un’altra ancora?) nelle due mostre. E un catalogo che potremmo quasi dire palindromo. Insomma, un gioco di specchi che non finisce più.
Si torna sempre a Biazzi, e, come sempre, con i Mascarini: questa volta grazie a un album di disegni ritrovato grazie alla loro pazienza e alla capacità di saper cercare. Ormai è assodato, l’ho già detto in un’altra occasione: i miei incontri con Biazzi sono tutti legati a iniziative condotte insieme ai Mascarini – prima con Romano, ora con Paolo, Michele e Sebastiano –, nelle quali auspicavo una mostra monografica di ampio respiro, promossa dall’amministrazione civica, che purtroppo è ancora, e resterà chissà per quanto tempo, in mente Dei.
Su Biazzi la testimonianza più autentica e partecipe è quella scritta da Fabrizio Merisi nel 2003 sui disegni dall’ospizio; pagine venate da intensità di vita e di sentimento urgenza appassionata che tuttavia non prevale sulla volontà di fornire sicure coordinate stilistiche e culturali. Fin da ragazzo mi ha sempre molto stupito il fatto che i pittori veri adorassero Biazzi e gli intellettuali no [certo, era compromesso con il fascismo: ma era il solo?]; così mi commuove il ricordo di Merisi e De Cicco ventenni che prendono come un impegno inderogabile l’andare a trovarlo «al Sòch»; il rispetto nei confronti del carisma, la cura nei riguardi della fragilità dell’uomo, nel quale avvertono ancora prepotente il demone inquieto e allucinato dell’Artista, come un vecchio leone in gabbia in pieno disfacimento fisico, impotente e demente, prossimo alla morte.
E la sequenza di nomi che fanno capire come «tendenze psichiche profonde emergono in epoche diverse come costanti poetiche dell’arte, per cui anche tra artisti isolati da spazio e tempo si possono riscontrare forti analogie e comuni contenuti poetici. Tra Biazzi e Viani, per esempio, e Vaglieri, Vangi, o Goya, Bacon, Barlach, o Käthe Kollowitz». Tutte fratellanze appropriate, ma confesso di essere stato impressionato dalle analogie tra Bacon e Biazzi: ispirazione, disagio, ossessioni, qualità, si parva licet, nell’espressione. Le allucinazioni di Biazzi non sono soltanto quelle cui dà libero sfogo, senza alcun vincolo di freni inibitori, ormai definitivamente partiti, negli incredibili disegni terminali dall’ospizio: la sua è una vita segnata da fantasmi e manie. Percorsa da un’umanità dolente, affetta da malformazioni congenite accentuate dalla propria ossessione; affiancata da una borghesia provinciale tapina, che lo disprezza ma vuole essere ritratta da lui. Ma il Biazzi che emerge dalle pagine di Merisi è per me una sorpresa anche commovente, abituato com’ero, da sempre, a un’immagine sordida, sopra [e sotto] le righe; soprattutto per la pietas nell’approccio all’uomo Biazzi, da parte del ragazzo che intraprende i primi passi nella pittura e nella vita, che va al di là della figura carismatica e, quante mai altre controversa, dell’artista. Riprendendo Merisi: «una ricerca filologica approfondita […] delle sue relazioni e vicende di vita (di cui esistono pochissime tracce dirette e scritte) sarebbe di grande importanza. Come anche una verifica attenta del curriculum professionale […]. C’è il bisogno insomma di vagliare criticamente un’aneddotica spesso volta a costruire forzosamente l’immagine di un Biazzi cosmopolita, quasi a volerlo nobilitare e levare dalla asfissia provinciale. Ma il fatto è che Biazzi, il Biazzi uomo e l’opera sua, non sono affatto provinciali».
Credo che anche questa mostra potrà essere di rinnovato stimolo per altre letture nel percorso di Biazzi. I disegni hanno come sempre dello straordinario: non solo le famiglie di disperati, le dolorosissime tavolate, i gruppi di bambini tristissimi, ma sono gli studi rapidi di figure singole a impressionare, tra malformazioni e l’ossessione di tutta la vita, il «piede equino»; tra membra arquate e volti dolenti, dai tratti appena accennati, tra nudi disfatti e zombie corpulenti. Ribadisco che andrà meglio indagato il rapporto, che appare a volte simbiotico, tra Mario Biazzi e il grande fotografo Ernesto Fazioli: un sodalizio che va oltre gli scatti di Fazioli delle opere del pittore o i ritratti che Biazzi dedica all’amico. I personaggi che impressionano le lastre di Fazioli o sono immortalati nelle tele di Biazzi sono spesso gli stessi, e ciò non vale solo per il ras del fascismo cremonese, Roberto Farinacci, che ricorre spesso ai servizi di entrambi, ma anche per numerosi ritratti, soprattutto femminili, che effigiano le medesime persone. Così è impressionante la trasformazione dei gruppi di bambini allegri e giocosi delle varie colonie cremonesi nell’infanzia deforme, malsana e disgraziata di Biazzi; mentre gli operai, i lavoratori del fiume e le massaie rurali che attendono «con italico vigore» alle loro opere diventano l’umanità macilenta dei grandi disegni a gesso nero. Ma si riesce anche a capire che Biazzi lavora sulle foto di Fazioli: deve possederne delle stampe, magari quelle di scarto, perché utilizza e rielabora pose e personaggi che, a mio avviso, non potrebbe cogliere dal vivo, se non in rarissime circostanze [non me lo vedo Biazzi a disegnare bimbi in giro per le colonie: non glielo avrebbero permesso; magari qualche facchino o muratore; ma, anche in considerazione dei suoi problemi fisici, mi sembra più facile che abbia lavorato su materiale fotografico piuttosto che en plein air].

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