Gen 26 2022

cronaca di mario silla 26 01 2022

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CRONACA DI MARIO SILLA, inventordirettore di www.cremonasera.it, come io l’ho ribattezzato: tremenda. Francoforte 26 01 2022 www.flaminiocozzaglio.info flcozzaglio@gmail.com

—Verso la giornata della memoria. Quei 1127 ebrei dai lager a Cremona nelle ex caserme. Sui muri e nei cuori i ricordi del transito

Il 27 gennaio è la giornata della memoria. E’ una ricorrenza internazionale celebrata ogni anno, dal 2005 per decisione dell’Onu, in quel giorno per commemorare le vittime dell’Olocausto.  Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Russa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. A Cremona transitarono alcune centinaia di ebrei in fuga dai campi di sterminio. Vennero ospitati nelle ex caserme. Con Antonio Leoni, giornalista e grande fotografo, andammo alla ricerca dei segni di quella presenza. Riproponiamo su Cremonasera l’articolo che scrissi in quella occasione e le foto di Leoni. (m.s.)

Il 27 gennaio 1945, in un inverno rigidissimo, i russi entrarono ad Auschwitz. Il mondo scoprì così il luogo del male assoluto. I nazisti se ne erano andati. I pochi scheletrici prigionieri rimasti apparirono nei campi come fantasmi ai liberatori: vecchi, malati, con gli arti congelati, pochi bambini, alcuni moribondi. Fino alla primavera inoltrata del ’45 si aprirono le porte di tutti i lager nazisti: si spalanca lo sguardo dei popoli a tutti gli orrori della shoah. Il 3 aprile gli americani scoprirono il massacro scientifico di Ohrdruf. Ma fu solo all’11 aprile dello stesso mese, con l’arrivo degli alleati a Buchenwald dove ancora restavano 19 mila internati, che si conobbe a fondo la ferocia della persecuzione nazista. Sei milioni furono gli ebrei morti nei campi di concentramento e sterminio. Oltre a loro anche detenuti comuni, politici, zingari, testimoni di Geova, omosessuali. Treblinka, Buchenwald, Auschwitz, Birkenau, Dachau, Mauthausen, Sobybor. Nomi tremendi che ricordano l’olocausto.

Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati. C’erano bambini tra noi, molti, e c’erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati caricati come merce sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di Auschwitz, è stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secolo più oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si mandassero a morte i bambini e i moribondi” (Primo Levi, “In onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazista”).

Circa 53 mila ebrei sopravvissero ai campi di concentramento. E iniziarono a vagare per l’Europa insieme ad una massa eterogenea di profughi costituita da ex prigionieri di guerra, civili in fuga, internati nei campi di concentramento e di lavoro, partigiani dell’est, ex collaboratori volontari del regime nazista. Soltanto il 3 per cento di questa massa era costituito da ebrei sopravvissuti ai lager. Vennero riuniti in campi di raccolta chiamati “di-pi lagern” ma loro si identificavano come “She’erit Hapleitah” riprendendo la formula della Bibbia che indicava i rifugiati ebrei sopravvissuti alla conquista di Israele da parte degli assiri, letteralmente “il rimanente che è stato salvato”.

« Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di lager,di pena e di pazienza; dopo l’ondata di morte seguita dalla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all’in su, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi e questo poneva fine al torpore della lunga estate, alla minaccia dell’inverno prossimo, e ci rendeva impazienti, avidi di giorni e di chilometri » (da “La tregua” di Primo Levi).

Su 53mila ebrei sopravvissuti più di 40mila arrivarono in Italia, la porta d’ingresso verso la Palestina, la Terra Promessa. Duemilaottocento passarono da Cremona, abitarono nelle caserme dismesse tra via Bissolati, strada Canòon, In fuga dall’orrore, ebrei polacchi, ucraini, moldavi e ungheresi arrivarono a Cremona stipati su camion della Croce Rossa furono ospitati nell’ex caserma Sagramoso (antico monastero del Corpus Domini), nella caserma Pagliari (già monastero di San Benedetto) e nella La Marmora dove si trova adesso il parcheggio di via Villa Glori. Erano famiglie, uomini, donne, bambini. Finalmente liberi, lontani da quell’orrore che avevano visto, sentito, vissuto. Lontani dello sterminio e dalle camere a gas. Nelle caserme cremonesi si fermarono quasi tre anni. Settant’anni dopo siamo tornati dove avevano vissuto. Qui il tempo sembra essersi fermato. Grazie alla scoperta di documenti inediti, testimonianze, fotografie siamo in grado, oltre settant’anni dopo, di raccontarvi la loro storia.

Siamo entrati nelle ex caserme diventate la casa degli ebrei dopo i campi di sterminio. Qui, il tempo si è fermato. Ovunque abbandono e degrado. Su alcuni muri rimangono scritte in ebraico: Bet-serfer che significa scuola, Bet-serfer “al shem Ch.N.Bialik” un’altra scuola dedicata al poeta ebreo Bialik, Friseur, barbiere scritto in tedesco, polacco e in yiddish poi la palestra, le cucine.

Senders Motel, Senders Hmda, Senders Rachuma, Fridman Zacharia, Friedman Jenka, Selinger Moses, Selinger Ehaskiel, Kessenkalmn Mose, Kessenkalm Rosa. Questi alcuni nomi di un lungo elenco di 1127 ebrei polacchi residenti a Cremona al campo AMG n.82 di Cremona redatto dall’infermiera volontaria Alice Sartori per conto del Comitato Provinciale della Croce Rossa Italiana, Ufficio Provinciale Prigionieri, Ricerche e Servizi connessi di Cremona. L’elenco è di 13 pagine e porta la data del 12 dicembre 1945.

Proviene dall’Archivio Storico Centrale della Croce Rossa Italiana, Fondo Prigionieri di Guerra. E’ un documento importantissimo e, per ora, l’unico conosciuto con una schedatura dei profughi ebrei che hanno soggiornato a Cremona. La nota che accompagna l’elenco precisa che “l’elenco è soggetto a quotidiane modifiche perché i ricoverati cambiano frequentemente”. La lista divide gli ebrei per camere. Si comincia dalla numero 37 dove abitavano in 53, l’elenco si chiude con la 145 dove vivevano solo due famiglie i Lypszyte e i Medmicki, sei persone in tutto. In realtà si trattava di stanzoni, camerate collocate al piano superiore delle ex caserme. Letti, armadietti in metallo e coperte appese a fili metallici che dividevano gli spazi riservati alle varie famiglie per garantire una assai precaria intimità. Un lungo elenco di cognomi e di nomi di cui non si sa nient’altro se non che provenivano dalla Polonia. Dove sono finiti (Israele, Stati Uniti o Canada?), da che campi provenivano (Auschwitz, Birkenau,Terezin o Goloby?), che cosa facevano prima di essere internati? Tutte domande alle quali dopo tanti anni ancora non si sono date risposte e su cui sta però lavorando da un po’ di tempo un importante istituto culturale americano, l’United States Holocaust Memorial Museum di Washington che sta raccogliendo immagini, documenti, testimonianze sui “Displaced Persons-Return to life”, persone disperse-ritorno alla vita, un ritorno al quale ha contribuito anche Cremona.

L’Italia all’epoca era considerata la porta di Sion, l’ingresso per la libertà, per la Palestina, per la Terra Promessa. Soprattutto per ragioni geografiche e di strategia ma anche per l’atteggiamento delle autorità italiane, meno restrittivo rispetto a quelle inglesi nell’autorizzare gli imbarchi verso la Palestina. Delle 56 navi che tra la fine della guerra e la nascita dello stato d’Israele nel maggio del 1948 portarono gli ebrei clandestinamente in Palestina, ben 34 salparono dalle coste italiane. Era facile arrivare in Italia attraverso i valichi alpini e altrettanto semplice per le navi affittate dall’Haganah (il servizio segreto, attivissimo in questa fase) trovare porti d’imbarco per il Medio Oriente. Erano 17 i campi profughi per gli ebrei distribuiti in tutta Italia soprattutto vicino alle grandi città. Il più grande era quello di Grugliasco, alle porte di Torino, e poi Cremona, Modena, Reggio Emilia, Genova, Cinecittà a Roma, in Puglia nel Salento.

La quasi totalità dei profughi ebrei entrò dal Brennero, dal passo di Resia e dal Tarvisio. Lo fecero con l’aiuto degli uomini della Brigata Ebraica, cinquemila uomini dell’ottava armata britannica provenienti dalla Palestina e dalla sezione italiana del Mossad, l’Aliyà Bet. Tutti i campi profughi italiani erano gestiti dall’Agenzia delle Nazioni Unite, l’Unrra con il supporto della Croce Rossa Italiana, mentre l’agenzia ebraica americana Joint (l’American Joint Distribuition Commitee) sosteneva finanziariamente i campi e contribuiva alle necessità dei profughi.

La situazione dei campi non rispecchiava la situazione demografica di una società normale dell’epoca. La maggioranza dei profughi era piuttosto giovane. La popolazione anziana era praticamente assente, il numero degli uomini era più del doppio delle donne, pochissimi i bambini.

Ma qual era il primo impatto con i campi. Lo descrive bene Primo Levi nel suo romanzo storico “Se non ora quando” raccontando l’impatto con palazzo Odescalchi, in via Unione a Milano, più o meno la stessa atmosfera che si respirava nelle ex caserme cremonesi.

In via Unione ritrovarono un’atmosfera che era loro più familiare. L’Ufficio Assistenza pullulava di profughi, polacchi, russi, cèchi, ungheresi: quasi tutti parlavano yiddish; tutti avevano bisogno di tutto, e la confusione era estrema. C’erano uomini, donne e bambini accampati nei corridoi, famiglie che si erano costruiti dei ripari con fogli di compensato o coperte appese. Su e giù per i corridoi, e dietro gli sportelli si affaccendavano donne di tutte le età, trafelate, sudate, infaticabili. Nessuna di loro capiva il yiddish e poche il tedesco; interpreti improvvisati si sgolavano nello sforzo di stabilire ordine e disciplina. L’aria era torrida, con sentori di latrina e cucina. Una freccia, ed un cartello scritto in yiddish, indicavano lo sportello a cui dovevano far capo i nuovi venuti; si misero in coda ed attesero con pazienza”.

I profughi ebrei arrivarono al campo di Cremona debilitati, spaesati, confusi, senza riferimenti politici e ideologici. Gli ebrei costituirono subito organismi di autogestione dei campi. Poi, con una assemblea nazionale, venne ufficializzata un’unica Organizzazione dei Profughi Ebrei in Italia, l’Ojri. Questa diede come priorità ai campi l’organizzazione culturale e scolastica: creare scuole e fornire una istruzione ai profughi. I bambini sopravvissuti allo sterminio avevano perso anni di studio e la leadership dei campi sosteneva che “nessun bambino ebreo deve rimanere senza una scuola ebraica” anche per mantenere e far rivivere un forte elemento identitario. Prima si prepararono gli insegnanti poi iniziarono a far funzionare scuole dentro i campi. Le materie erano: ebraico, letteratura ebraica, storia, storia del sionismo, geografia generale e della Palestina, igiene. Era un modo per dare concretezza al sogno: prepararsi per andare nella Terra Promessa da ebrei liberi.

Per gli adulti furono attivati corsi di formazione professionale. A Cremona venne istituito un corso per elettricisti e radiotecnici. Dal punto di vista dell’istruzione tecnica, il campo cremonese era considerato il migliore in assoluto tanto è vero che qui si costruirono piccole radio che poi vennero diffuse in tutti gli altri campi italiani. Cremona si specializzò anche nella cucina di carne Kosher. Nel campo di via Bissolati funzionò anche una biblioteca con annessa sala lettura. Nei vari campi arrivarono musicisti, attori, artisti professionisti ed amatoriali scampati allo sterminio con compagnie itineranti.. Nel campo cremonese operò anche un circolo teatrale che forniva testi, regia, costumi e trucchi, Il circolo teatrale di Cremona era organizzato dall’artista Kantor. Anche qui venne diffuso il settimanale in lingua yiddish Bederekh che aveva una tiratura di tremila copie.

Il sogno di buona parte dei profughi ebrei ospitati a Cremona era la Palestina, la Terra Promessa. Non era facile riuscire a realizzare il sogno. Alcuni riuscirono a lasciare il campo di via Bissolati nel giro di pochi mesi, per altri l’attesa fu più lunga. Difficoltà burocratiche, gli enormi problemi sollevati dai militari inglesi per lasciar attraccare le navi in Palestina, le incomprensioni rendevano l’emigrazione verso la Terra Promessa sempre più difficoltosa. Il 20 novembre 1945 da Cremona partì uno sciopero della fame di tutti i profughi per sollecitare le autorità italiane a lasciar partire le navi dalle nostre coste. All’inizio del 1946 nel porto di La Spezia mille ebrei attendevano di salpare su due imbarcazioni, la Fede e la Fenice, alla volta della Palestina. E’ la stessa storia della nave Exodus, portata sullo schermo da Paul Newman, ambientata all’epoca in Grecia anche se la storia era quasi sicuramente quella italiana. La Polizia aveva bloccato gli imbarchi per un errore: gli ebrei vennero scambiati per un gruppo di fascisti intenzionati a lasciare il nostri Paese. Scattò la protesta in tutti i campi. A Cremona i profughi ebrei sfilarono con cartelli di protesta sui corsi cittadini per rivendicare il diritto alla partenza per la Palestina. L’equivoco venne chiarito e le partenze ripresero.

Il campo venne chiuso il 31 marzo 1947. Buona parte dei 2800 ebrei raggiunse la Palestina, molti altri gli Stati Uniti, alcuni il Canadà. Nel 1987, in occasione delle celebrazioni stradivariane, una ventina di ebrei passati da Cremona e poi emigrati negli Stati Uniti volle far ritorno sotto il Torrazzo. Arrivavano da New York dove avevano costituito un “club Cremona” nella città della grande mela per ricordare chi li aveva accolti dopo i lager. Erano guidati da un dentista, Samuel Unger, che consegnò al sindaco Renzo Zaffanella una pergamena con parole di riconoscenza verso la città così ospitale con loro dopo la Shoah. Molti ebrei passati da Cremona fecero fortuna negli Stati Uniti.

E’ il caso di Samuel Podbersky nato a Cremona nel campo dei deportati e uno dei primi nati in assoluto da genitori sopravvissuti dall’olocausto. Dopo essere emigrato negli Stati Uniti e cresciuto a Baltimora, nel Maryland, Podberesky si è laureato in ingegneria spaziale e poi in legge. Dal 1986 ha presieduto il Comitato dell’Ufficio dell’Aviazione per i diritti dei passeggeri al dipartimento dei trasporti americani. Oggi risiede vicino ad Annapolis con la moglie Rosita i cui genitori erano, come quelli di Samuel, sopravvissuti all’olocausto. Dal racconto dei genitori e degli amici che con loro hanno raggiunto l’America, Podberesky ha scritto recentemente il suo primo libro: “Never the last road” (Mai l’ultima strada). E’ la storia drammatica della sopravvivenza di Noah Podberesky e della sua futura moglie Mina Milikowsky, vittime ebree della persecuzione. E’ una storia di forza individuale, coraggio e un ripetuto intervento della buona sorte. Nel libro si racconta dell’olocausto ma anche dell’aiuto di tante persone. Una storia vera. Mina pur ferita, combattè per due anni i nazisti con i partigiani russi. Noah ha iniziato la guerra nell’esercito polacco e più tardi ha servito l’esercito russo guidando una unità di partigiani. Per diverse volte è sfuggito ai rastrellamenti tedeschi e ai massacri. Poi la sopravvivenza nei campi, il passaggio a Cremona (un intero capitolo è dedicato al campo profughi della nostra città) e quindi il viaggio negli Stati Uniti.

Un’altra incredibile storia di ebrei passati per Cremona è quella di Robert Frimtzis, originario di Beltz in Moldavia. Per sfuggire alla persecuzione scappò con la sua famiglia nel Tagikistan e alla fine della guerra arrivò al campo di Cremona. Emigrato negli Stati Uniti, si laureò in ingegneria aerospaziale e divenne coordinatore del programma Apollo della Nasa. Nel 2008 scrisse il suo libro di memorie dal titolo “From Tajikistan to the Moon”, dal Tagikistan alla luna. Dal campo di Cremona passò anche un famoso jazzista, un medico ricercatore diventato in Israele uno dei padri della patria.

Nomi, volti, lacrime, sorrisi, storie di sofferenza e di speranza. Dall’Archivio dell’United Staes Holocaust Memorial Museum di Washington, una serie di scatti realizzati dai profughi ebrei dentro il campo cremonese o in città.

La letteratura, il ricordo, i film sulla Shoah si fermano spesso al momento dell’apertura dei campi o alla liberazione di Auschwitz la fabbrica della morte, lasciando a volte un interrogativo su quello che è stato il destino dei sopravvissuti allo sterminio. Noi abbiamo cercato di farlo partendo da alcune storie di quei tremila ebrei che sono passati di qui, dal campo di Cremona oggi abbandonato a sé stesso, sporco, pieno di rovi e di erbacce, regno dei piccioni e dei topi, con i muri che si sfaldano, la pioggia che entra e con le scritte in ebraico che spariscono. Ma, anche così, rimane un monumento alla memoria. Per non dimenticare il frutto orrendo dell’odio, i milioni di morti e la speranza dei sopravvissuti.

Le fotografie sono di Antonio Leoni

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