Gen 23 2021

la legge del più forte-milleottocentocinquantaquattro 23 01 2021

Published by at 5:55 pm under Pubblica Amm.ne

LA LEGGE DEL PIU’ FORTE – milleottocentocinquantaquattro

https://www.errorigiudiziari.com/innocenti/piu-di-3-anni-in-carcere-per-un-omicidio-mai-commesso/

Testimoni inattendibili: per stabilirlo era necessario arrivare al processo? e se i difensori non avessero avuto la pazienza di studiare i cellulari?

—Lo aveva detto subito che era innocente, che la sua era un’ingiusta detenzione, che era vittima di un clamoroso errore giudiziario. E invece Narsullah Khan, 41 anni, originario del Pakistan, non è stato creduto: arrestato, messo in carcere con un’accusa pesantissima – aver ucciso un connazionale – e condannato a 21 anni e mezzo di reclusione in primo grado, ha sfiorato la tragedia. Essere dimenticato in cella come migliaia di altri detenuti qualunque, lui, innocente.

Sotto il peso di quel macigno, l’accusa di omicidio, è rimasto travolto nella vita privata: ha perso il lavoro, il permesso di soggiorno, la famiglia. Già, perché la moglie e i quattro figli piccoli sono stati costretti a tornare in patria. Una vita distrutta, insomma.

Poi, la svolta. La corte d’assise d’appello che lo assolve con formula piena (“per non aver commesso il fatto”), il sogno di poter ricominciare tutto daccapo, riabbracciare la sua famiglia. Non prima di aver chiesto conto allo Stato di questo clamoroso errore: 250 mila euro come riparazione per l’ingiusta detenzione subita, più di tre anni in carcere.

Tutto era cominciato quattro anni prima. La sera del 2 agosto del 2008 il pakistano Shahbaz Aktha, 35 anni, residente a San Prospero (Modena), fu massacrato da un gruppo di connazionali. Gli tesero un agguato a Villarotta di Luzzara, in piazza davanti a un bar. Armati di spranghe e bastoni, si accanirono su di lui in un regolamento di conti tra famiglie presenti da anni nella Bassa reggiana e modenese. Dell’inchiesta si occupò il sostituto procuratore della Repubblica di Modena, Luca Guerzoni, che coordinò le indagini insieme con i carabinieri. Finirono in carcere dieci persone di nazionalità pakistana, che scelsero di definire la loro posizione con rito abbreviato. Tutte, tranne Khan, sicuro della propria innocenza, e due coimputati ancora latitanti, il 33enne Sajad Ahmad e il 30enne Waraich Hussain. La Corte d’Assise di Reggio Emilia condannò i tre a 21 anni e 6 mesi di reclusione. In particolare, un testimone riferì di aver visto arrivare Khan sul luogo del delitto.

Di fronte a un testimone oculare, Khan sembrò non avere scampo. Invece il fatto di poter contare su un collegio di avvocati difensori di ottimo livello (Giuseppe Silipo, Oliviero Mazza, ordinario di procedura penale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, e Tatiana Vivino) si è rivelato determinante. Carte alla mano, i difensori non si sono dati per vinti. Hanno studiato i tabulati telefonici, incrociato i dati delle celle di più ripetitori e ricostruito con pazienza certosina orari e movimenti di quella notte maledetta. Khan non mentiva: non poteva trovarsi a Villarotta al momento dell’aggressione. La certezza è arrivata grazie alle ricerche dell’avvocato Vivino. Alle 21,54, 7 minuti dopo il delitto, uno dei coimputati telefonò da Villarotta a casa di Khan, a San Marco di Guastalla, evidentemente convinto di trovarlo. Se anche Khan fosse stato in piazza, perché l’amico avrebbe dovuto fargli quella telefonata?

In secondo grado, questa tesi convince i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bologna. Il 9 novembre scorso, dopo aver confermato le condanne di Ahmad e Hussain, assolvono il 41enne pakistano con formula piena, “per non aver commesso il fatto”. Nelle motivazioni, depositate pochi giorni fa, la ragione è chiara: tutti i testimoni sono stati dichiarati inattendibili. La fine di un incubo, per il padre di famiglia che ha trascorso tre anni in carcere da innocente. Una sentenza accolta in silenzio, con le lacrime a rigare il viso e la forza della preghiera che non l’ha mai abbandonato. Dopo oltre tre anni passati in carcere, Khan ha perso tutto: non solo il lavoro e la famiglia, già rientrata in Pakistan, ma anche i documenti per potersi ricostruire una vita in Italia. A causa del processo si è visto infatti sospendere il permesso di soggiorno. Ora rischia pure di dover tornare a casa, in quella terra da cui è fuggito alla ricerca di un lavoro e di una possibilità da dare ai suoi figli. Per questo motivo ha deciso di fare causa allo Stato e di chiedere alla Corte d’Appello di Bologna un risarcimento per ingiusta detenzione, quantificato in 250mila euro.

Francoforte 23 01 2021 www.flaminiocozzaglio.info flcozzaglio@gmail.com

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