Mag 18 2018

la legge del più forte-ottocentottanta 18 05 2018

Published by at 7:29 pm under costume,cronaca cremonese,cronaca nazionale,Giudici

LA LEGGE DEL PIU’ FORTE – OTTOCENTOTTANTA Da Valter Vecellio, sul Dubbio; non avessero i giudici esagerato con il carcere preventivo, che la legge rettamente interpretata prevede in pochissime circostanze, il caso Tortora sarebbe diventato la bandiera che è ancora oggi, o rimasto uno dei tanti processi sbagliati? —-Il 18 maggio 1988 Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Anni dopo, Carlo Verdelli ( non l’ho mai fatto, me ne dolgo, lo ringrazio ora), su “ Repubblica”, scrive: “ Non fosse stato per i radicali ( da Pannella a Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell’opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora con un editoriale controcorrente: ‘ E se Tortora fosse innocente? ‘. Non fosse stato per l’amore e la fiducia incrollabile delle figlie e delle compagne ( da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell’ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l’inizio del calvario di Enzo Tortora ( 17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza ( 18 maggio 1988, cancro ai polmoni), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima”. Tortora è arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata: lo si fa uscire solo quando si è ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. La prima di una infinita serie di mascalzonate. Con Enzo nasce una solida amicizia; conservo parecchie sue lettere, scritte dal carcere, a rileggerle ancora oggi, trascorsi tanti anni, corre un brivido. 16 settembre 1983: “ Da tempo volevo dirti grazie… Hai “scommesso” su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua “puntata”. Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il “caso Tortora è il caso Italia”. Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non “onorevoli”… Se dal mio male può venire un po’ di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo”. 2 maggio 1984: “… Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l’Italia “ha abolito la pena di morte”. Abbiamo un boja in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in “attesa” di un giudizio che non arriva mai. L’uomo qui è niente, ricordatevelo. L’uomo qui può, anzi deve attendere. L’uomo qui è una “pratica” che va “evasa” con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale…”. 15 luglio 1985: “… In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell’obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s’è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d’ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente”. 7 ottobre 1985: “… Sono stato condannato e processato dalla N. G. O., Nuova Giustizia Organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita…”. 2 aprile 1986: “… Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all’estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano…”. 17 agosto 1987: “… Siamo molti… ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l’incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito… Sono ancora lì, al loro posto… Staremo a vedere…”. Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “Perché? ”. “Cinico mercante di morte”, lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: “Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza”. Le “prove” erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘ o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricorda-no di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Come un documento di straordinaria e inquietante efficacia, l’intervista fatta per il “TG2” con Silvia, la figlia di Enzo. Quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”. -Candidato al Parlamento Europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la “sua” ossessione. Ora tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei radicali per la giustizia giusta. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è cosa ormai assodata. Nessuno dei “pentiti” che lo ha accusato è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.

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