Mar 18 2018

la nuova razza padrona 18 03 2018

Published by at 11:12 pm under barzellette,costume,cronaca nazionale

LA NUOVA RAZZA PADRONA
E’ una nota molto lunga quella che l’Espresso dedica al MoVimento, ma val la pena di leggerla per toccar con mano, ancora una volta, come Scalfari Eugenio Magno domini da sessant’anni nel giornalismo di sinistra, che a sua volta domina il giornalismo italiano: l’Italia e gli italiani son quelli che dice il Magno; i grillini, di colpo, han smesso gli stracci del fanculo e indossano i gessati delle cerimonie e dei grandi studi, una volta conquistato il potere vero. Poi i gessati di cui il Magno ricorda il nome son 25 in tutto, in mezzo ai trecento eletti, e non ce ne sarebbe uno del Nord (!), ma l’importante è passi il messaggio.
—-Luigi Di Maio e Ugo Grassi Agli antipodi del Vaffa. In perfetta sintonia con la calata su Palazzo Chigi. Ecco nei Cinque stelle s’avanza l’establishment, il notabilato, la solidità. Anche attraverso le urne, camminando sulle gambe degli eletti. Nel placido regno borghese di Luigi Di Maio non c’è (quasi) più spazio per gli steward dello stadio San Paolo e per i webmaster a reddito zero.
Siamo a una fase nuova dell’esperimento a Cinque stelle . Ora a incarnare l’anima del Movimento è gente come Nicola Provenza, il salernitano che è riuscito nell’impresa in partenza impossibile di vincere nel loro feudo contro i De Luca (Vincenzo il governatore e suo figlio Piero, ripescato col proporzionale a Caserta). Un Masaniello? Macché. Gastroenterologo ed ex allenatore di calcio, famiglia democristiana, Provenza è rivoluzionario come potrebbe esserlo un professore di greco nell’atto di coniugare l’aoristo. Padre di tre figli, doroteo post litteram, è figlio di Vittorio, che fu sindaco di Salerno per la Dc alla fine degli anni Settanta. Sua moglie, insegnante, così elegante da astenersi dal dire «votatelo» persino agli amici. Lui, Provenza, per tutta la campagna elettorale non ha speso una-parola-una per cavalcare la vicenda di Roberto De Luca, l’altro figlio del governatore e ora indagato per corruzione. Ma in compenso è capace di terremotare le interviste con parole del tipo: «La mia missione è che tutti possiamo tornare a occuparci di politica». Lotta dura senza paura, lo stile è quello.
Sarà un caso? Tutt’altro. Tra i Cinque stelle in procinto di entrare in Parlamento si contano a pacchi avvocati, commercialisti, medici, docenti universitari, consulenti d’azienda, bancari, imprenditori e professionisti in genere. Ha questa cifra, il boom del Movimento che ha fatto cappotto all’uninominale in tutto il Sud, e strage di seggi anche al proporzionale, trovandosi in qualche caso più voti che persone da eleggere, a partire dai 28 seggi su 28 conquistati all’uninominale in Sicilia (per un totale di 53 eletti), passando per i 24 su 24 in Puglia, 3 su 3 in Basilicata, fino ai 60 parlamentari eletti in Campania (20 al Senato e 40 alla Camera: un esercito). Altro che disoccupati, precari e arrabbiati: certo c’è anche Francesca Galizia, assistente di volo di Ryanair, o Elisa Tripodi, consulente assicurativa e barista nei fine settimana, ma professionisti con uno status solido e magari l’iscrizione al circolo sportivo, Di Maio – «un raffinato borghese» lo definì Mario Monti avendolo incontrato al Forum Ambrosetti di Cernobbio – ha fatto incetta, un po’ come già era accaduto per le regionali siciliane di novembre, dove aveva puntato moltissimo sull’Accademia.
Ma stavolta il flusso è stato a piene mani e a doppio senso: contemporaneamente, infatti, come attratto da un piffero, dalla irresistibile calamita del potere in crescita, il notabilato locale si è infilato in ogni piega del Movimento. Una corrispondenza di amorosi sensi, e che male c’è: i volti di una nuova classe dirigente.
Quella che in questi anni – a partire dal governo della Capitale – è mancata e talvolta dolorosamente ai Cinque stelle. Il caso Raggi a fare da apripista, Di Maio attrezzato per tempo a non trovarsi nella stessa situazione. La vulgata pentastellata, adesso, vuole che l’onda abbia spazzato via il vecchio mondo: e certo accade anche questo, come nei casi, in Calabria, di Andrea Gentile figlio dell’ex sottosegretario Tonino, spazzato via da Carmelo Misiti, medico; e di Giacomino Mancini, 28 anni, figlio di Pietro e nipote di Giacomo nella nota dinastia, sconfitto a Cosenza dalla event-manager Anna Laura Orrico, 36 anni. Ma anche chi approda ora in Parlamento sulla cresta dell’onda grillina è magari sconosciuto al grande pubblico, ma non è propriamente sempre l’anti-casta, anzi.
L’apoteosi di questa logica è proprio la Campania, regno ormai incontrastato del capo M5S, e del suo più fidato consigliere, l’uomo chiave Vincenzo Spadafora da Afragola, anche lui adesso puntualmente eletto in Parlamento dopo una ventina d’anni di surfing politico-istituzionale. Nell’Irpinia, per dire, dove stavolta per De Mita è tremenda sconfitta, è diventato senatore pentastellato Ugo Grassi, 54 anni, professore ordinario di diritto civile, presidente del dipartimento di Giurisprudenza a Napoli, sposato (informa Antonio Polito) alla nipote notaia di Pellegrino Capaldo, membro quindi della famiglia più potente di Atripalda, centro alle porte di Avellino. «Liberare l’Irpinia e l’Italia da un controllo feudale del territorio», è stato uno dei tormentoni della sua campagna elettorale. Che ha rinnovato l’annosa questione dell’intercambiabilità dei feudatari. Sempre là, i padri hanno seguito i figli – come da timorose supposizioni della vigilia – ed eletto il quarantenne Michele Gubitosa, imprenditore, fondatore dell’azienda che ha garantito il sistema informatico dell’Expo di Milano e già presidente onorario dell’Avellino calcio. Un altro capo popolo, insomma.
Nell’eterna indecisione tra padella e brace, è da segnalare come persino tra i Cinque stelle alla frittura si preferisca il bollito. In Cilento, nella terra dove è stato sconfitto l’ex sindaco di Agropoli Franco Alfieri, detto «re delle fritture» per la capacità di «fare la clientela come Cristo comanda», vince a sorpresa pure il settantacinquenne Franco Castiello, detto dagli avversari politici «il bollito». Un tipo da quattro lauree, già avvocato della Banca d’Italia e giudice del Tar, e dal curriculum di quelli persino troppo lunghi per stare in una vita sola (ha fra l’altro insegnato sociologia per qualche anno all’Università di Urbino). Negli ultimi sei anni e fino a poche settimane fa, il neo senatore Castiello – proprio come già Denis Verdini che lo fu del Credito cooperativo fiorentino – è stato presidente (oggi è vice) della Banca di credito cooperativo del Cilento e Lucania del Sud, e capo della relativa Fondazione Grande Lucania Onlus.
Sulla rete, volendo, ci sono varie sue interviste concesse alla non antipatizzante “Set tv”, emittente locale con la quale la Banca guidata da Castiello ha stipulato ormai da anni una convenzione «allo scopo di fornire alle comunità locali massima visibilità per le azioni che vengono promosse» sul territorio, come si legge in uno dei passati bilanci. Comunque il neosenatore ha già confessato entusiasta al “Mattino” che a Palazzo Madama porterà l’idea rivoluzionaria dei «partiti che vanno restituiti alla funzione di mediatori sociali». Nonché la propria solida esperienza: «In Parlamento si va per fare leggi, se non si hanno competenza e professionalità non si può essere buoni legislatori. Per esserlo, bisogna aver saputo amministrare». Ci vuole gente come lui.
Dopo la protesta, la professionalità: non si capisce bene dove siano finiti i principi del movimento alla «uno vale uno», al momento sembra persino fuori moda accennarne. E se al Vomero Doriana Sarli, veterinaria, figlia del sarto di alta moda Fausto che vestì Lucia Bosé e restaurò abiti di Eleonora Duse, vince la sfida diretta contro Giancarlo Siani fratello del giornalista ucciso dalla camorra, e nel collegio di Ponticelli-Barra stravince Rina De Lorenzo, docente di diritto ed economia nonché dirigente nazionale della Gilda. A Giugliano c’è l’oncologa e ricercatrice del Cnr Maria Domenica Castellone, tornata all’istituto di endocrinologia di Napoli dopo anni negli Stati Uniti. E a Nola il primo posto va a Francesco Urraro, il presidente del locale Ordine degli avvocati, un foro che arriva fino ad Acerra e Pomigliano e conta migliaia di iscritti.
Non che sia tutto una sorpresa. Lo aveva annunciato Raffaele Fitto a Matteo Salvini – benedetti fuorionda, mai casuali – nell’audio carpito durante l’ultima iniziativa comune del centrodestra prima del voto: «Al sud i Cinque stelle fanno cappotto agli uninominali». Oplà. La profezia ha travolto in pieno persino colui che l’ha pronunciata: l’ex ministro ed ex ragazzo d’oro del centrodestra è rimasto a secco, lui che partiva dal record personale delle 275 mila preferenze incamerate alle Europee del 2014. Adesso in Regione i Cinque stelle di voti ne hanno totalizzati 981 mila. Una grande e uniforme distesa grillina, nella quale Barbara Lezzi prende dieci volte i voti di Massimo D’Alema. Dove, il M5S vince schierando per il Denato, nella Taranto dell’Ilva Mario Turco, commercialista e docente universitario di Economia Aziendale; ad Altamura la direttrice del carcere di Trani Bruna Piarulli (Camera), e al Senato Nunzio Angiola, 49 anni, da tredici Ordinario di economia aziendale all’Università di Foggia, specializzato in management, sistemi informativo-contabili e formazione di dipendenti pubblici; a Lecce, il Maestro Michele Nitti, che ha una cattedra al Conservatorio e spesso dirige l’orchestra della città.
Sempre in Puglia, un altro ex signore delle preferenze come Rocco Palese, già fittiano in ultimo ritornato con Forza Italia, viene spianato nel collegio di Casarano da una commercialista di 55 anni: Nadia Aprile, studi e laurea a Torino, vita adulta nella natìa Taviano. E dire che Palese era stato beneficato persino da una dichiarazione amichevole di Alessandro Di Battista: «È una persona che ha lavorato tanto, spero che venga eletta», aveva detto di lui il più popolare tra i leader grillini.
Ma non è più l’onestà (tà-tà) a fare la differenza. Lo si capisce imboccando la via dei candidati reprobi, quelli che sono stati variamente sospesi in campagna elettorale per i motivi più vari (carenti versamenti al fondo per il microcredito, mancate dichiarazioni di appartenenza alla massoneria, eccetera). Tranquillamente eletti, alla fine. A partire da Antonio Tasso, 50 mila preferenze nel collegio di Cerignola, quello del leggendario Giuseppe Di Vittorio, nonostante le polemiche per i cd duplicati e le Playstation taroccate. Ma anche con il caso di Catello Vitiello, avvocato, massone che ha stravinto a Castellammare di Stabia nonostante la cacciata, o come con quello di Salvatore Caiata, presidente del Potenza Calcio, espulso perché indagato per riciclaggio ma comunque eletto con oltre 60 mila preferenze.
Trionfi appresso ai quali il reality grillino rivela un altro aspetto. Quello e per cui, alla fin fine, il marchio conta ancora più del nome, della faccia, delle parole. Insomma la persona può anche non esserci. Come per Andrea Cecconi che, a Pesaro, ha vinto contro il ministro dell’Interno Marco Minniti pur senza fare campagna elettorale: si era autorecluso in vacanza in montagna dopo il caso dei rimborsi, non si presentava in piazza, non twittava, non rispondeva nemmeno al telefono. Ha raccontato il coordinatore locale Fabrizio Pazzaglia a Repubblica: «A ogni incontro ci presentavamo senza candidato, spiegavamo venti punti del programma con le slide, e mai uno che chiedesse: e Cecconi? Allora ho capito che la gente voleva proprio noi, al di là dei nomi».
Ce l’ha fatta così, a Palermo, anche lo scrittore e ristoratore Aldo Penna: intellettuale, animatore del locale vegetariano Il Mirto e La Rosa, ha stravinto nonostante la campagna elettorale fatta dal letto di ospedale, dove era stato ricoverato per un grave malore. È la politica dei candidati invisibili, che arrivano in Parlamento sulle ali di un brand. È quel che accade alle aziende di successo: finora, ai partiti, assai meno.

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